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Il sorriso non è obbligatorio. O sì?
- 8 Marzo 2019
- Posted by: Patrizia Menchiari
- Categoria CardioMarketing Marketing Racconta

Incontro il titolare di una nota ed eccellente azienda di servizi con migliaia di dipendenti.
Parliamo del servizio offerto dal personale e dell’importanza di far sentire il cliente come un ospite gradito. Mi dice: “non si possono obbligare i dipendenti a sorridere”. Ci penso tutto il giorno. Perché, mi chiedo?
L’azienda dichiara che la sua filosofia è “Mettere il cliente al centro”. Ma come può un cliente sentirsi al centro di qualcosa se non lo guardi in faccia e non gli sorridi?
Il sorriso è un atteggiamento professionale e, in molti casi, è ingrediente imprescindibile della qualità del servizio. Tutti hanno i loro problemi, ma essere gentili e amichevoli con i clienti – e i colleghi- fa bene a se stessi, agli altri, al clima aziendale e al conto economico.
L’atteggiamento è una parte “intangibile” del valore offerto, che viene spesso ritenuto non importante in quando “non misurabile”. Si investe in tecnologia, in promozioni e in automazione perché i ritorni sono facilmente percepibili, diversamente da quelli di cultura e motivazione delle persone. Eppure mille attività vengono fatte e date per scontate benché il loro ritorno non sia misurabile: qual è il ritorno della pulizia dei locali? E’ considerato normale investire per accogliere il cliente in un luogo pulito ma allora perché lasciare ai singoli la scelta se accoglierlo con cortesia o con indifferenza?
“Non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato.” Albert Einstein
Ora, capisco che in Italia sia impossibile lasciare a casa il dipendente che non sorride, ed è chiaro che “costringere qualcuno a sorridere” non è fattibile, però si potrebbe iniziare a selezionare persone sorridenti per natura ed attitudine.
La mitica Zappos, ad esempio, dichiara che “Our purpose is to live and deliver WOW!” e assume solo persone in linea con i valori aziendali. Come identificarle? The Zappos Oath of Employment spiega molto bene la loro strategia di recruitment.
Il mitico portale fashion seleziona i nuovi impiegati in base alla loro capacità di sprizzare gioia. Il fondatore Tony Hsieh ha scritto il libro Delivering Happiness perché “Consegnare felicità” è il primo dei valori fondamentali dell’impresa, come spiegato nel sito: significa comportarsi con clienti e colleghi in modo da trasmettergli tutto l’entusiasmo possibile. Nella sezione “divertimento obbligato” viene chiarito che la necessità di essere contenti autorizza i dipendenti a mettersi a cantare all’improvviso e anche a concedersi un sonnellino in una stanza apposita, per ricaricarsi. (fonte). Nel 2016 il CEO Tony Hsieh ha chiesto ai 1,500 dipendenti di abbracciare la filosofia aziendale del “self-management” oppure accettare una generosa buonuscita: il 18% se ne sono andati, presto rimpiazzati da persone più in linea con il progetto. Un’americanata? Sì, certo, ma di quelle che producono una crescita dei profitti del 77% da un anno all’altro.
Per l’ennesima volta mi trovo a pensare che il nodo più spinoso del marketing sono la cultura aziendale e le persone.
Non solo quelle dell’ufficio marketing, non chi cura le campagne, il CRM o gli analytics. No, io parlo della donna delle pulizie, del manutentore, del tecnico post vendita (vi ricordate “Ah guardi a me non importa nulla?”) della centralinista, dell’amministrativa (vi ricordate quella che cancella il tuo user in scioltezza?) e della commessa, ossia di tutti gli human-touch-point dell’azienda. Quelli che dimostrano, in concreto, la vision e la mission scritte da qualche parte nel sito (e spesso c’è “cliente” al centro). Se per questi signori il cliente è un disturbo, una noia aggiuntiva, o qualcuno di semitrasparente che si aggira nel punto vendita mentre loro espongono la merce beh, il problema è grosso, in tempo di social e recensioni.
Qualcuno, invece, rende lo obbligatorio lo sport.
Leggo che in Svezia si inizia a reputare “obbligatorio” anche prendersi cura del proprio benessere psicofisico. Una provocazione? Una prevaricazione?
Ma d’altro canto, qual è il costo di persone stressate e arrabbiate e meno sane?
Le aziende che ho analizzato nel libro CardioMarketing sono molto amate e vedono il clima organizzativo come una priorità assoluta. perché per fare un’azienda di successo servono persone di successo.
La palestra aziendale? Il pisolino in ufficio? Il centrifugato di frutta fresca? Se pensi che siano stupidaggini sappi che i benefici sono scientificamente provati.
Le neuroscienze ci spiegano che i team vincenti lavorano in ambienti che proteggono le capacità del cervello, incoraggiando esercizio fisico, nutrizione e riposo corretti. Gli incentivi emotivi, un ambiente corretto e le novità permettono al cervello umano di sviluppare il suo potenziale al massimo. Le persone rendono meglio quando possono concentrarsi su un obiettivo alla volta (cambiare task continuamente spreca energie del cervello!), pensare con le loro teste, collaborare e assumere rischi che stimolano la performance. E, naturalmente, un ambiente positivo e amichevole è trai primi fattori che aumentano la produttività delle persone.
Le ricerche dicono che un manager gioviale è una risorsa per tutta l`azienda, è capace di migliorare la collaborazione e, ha una marcia in più per il raggiungimento dei risultati.
A Milano c’è un’azienda in cui alla ‘felicità’ dei dipendenti è dedicata un’intera divisione aziendale. Dieci collaboratori a rotazione rappresentano gli “ambassador” dei progetti, in modo da fare il giusto mix tra le “idee aziendali” e le idee e i bisogni segnalati direttamente dai collaboratori stessi, attraverso continui sondaggi. Orari flessibili, smart working, il “maggiordomo aziendale” per le commissioni, visite mediche in azienda, workshop su autostima e consapevolezza, seminari, yoga. Ogni anno viene dedicato ad un “tema” sul quale vengono poi sviluppate iniziative, nel 2018 ad esempio è stato dedicato alla “Felicità” da costruire ed allenare, da rintracciare nel nostro vivere quotidiano e nelle piccole cose. “Un investimento che ripaga nel tempo prima di tutto con grandi soddisfazioni a livello umano e di risultati aziendali” spiega la titolare.
La soddisfazione del cliente non basta più a garantire la sua fedeltà, serve “connessione emotiva”. Secondo Harvard Business Review maggiore è il livello di connessione emotiva con i clienti maggiore è il loro valore.
fonte: HBR
La connessione emotiva trasforma un cliente soddisfatto in un fan, gli fa vivere esperienze gratificanti. Che producono ormoni della felicità. Che aiutano a memorizzare e a voler ripetere l’esperienza positiva.
Possiamo ancora permetterci di essere un qualunque fornitore di merci e servizi che lascia al team la libertà di essere musoni e indifferenti con chi paga il loro stipendio?
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