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Benvenuta in FCA
- 26 Luglio 2018
- Posted by: Patrizia Menchiari
- Categoria CardioMarketing Racconta Social Media

Mio padre è stato un manager FIAT per 30 anni. Di “mamma FIAT” ricordo un welfare di altri tempi per noi figli dei dipendenti: regali, borse di studio, colonie estive. Ricordo anche i manager spostati come pedine da un giorno all’altro da una sede all’altra: facevo amicizia con i figli dei colleghi di mio padre e da un giorno all’altro PUF! trasferiti. La maggior parte dei matrimoni non sopravvivevano a quella transumanza continua. Mio padre trovò il modo di restare a Brescia, scegliendo un percorso di carriera particolare (quello di formatore). Sicuramente rinunciò a molte aspirazioni, ma permise alla sua famiglia di radicarsi su un territorio dove ci aveva portato proprio la FIAT. Se sono nata e cresciuta a Brescia da genitori non bresciani, infatti, è perché Brescia era una delle prime destinazioni in cui FIAT spedì mio padre. Io ero bambina ma mi chiedevo perché un’azienda che faceva cose belle per i suoi dipendenti rovinasse così la vita di chi voleva fare carriera.
Mio padre mostrava sentimenti ambivalenti per la sua azienda. Da un lato soddisfazione, senso di appartenenza. Ebbe una carriera ricca e interessante, girò l’Europa e raccolse molte gratificazioni a livello umano. Era un ottimo brand ambassador: ogni anno cambiavamo auto e ogni volta erano più belle e superaccessoriate, di quelle che “non sembra nemmeno una FIAT”. D’altro canto provava frustrazione per le ingiustizie, per la burocrazia interna illogica, per la crescente spersonalizzazione legata alla crescita smisurata del carrozzone. C’erano inefficienze, raccomandati, manager incompetenti, scelte aziendali incomprensibili e non condivise. Aveva vissuto gli anni bui del conflitto sindacale, dei manager che venivano gambizzati o uccisi se non aderivano agli scioperi, della marcia dei 40.000. Nutriva una distaccata stima per Gianni Agnelli, ma non mi parlò mai bene dei suoi successori. FIAT diversificava, perdeva credibilità e quote di mercato, ed era gestita in modo sempre più caotico.
Quando andò in pensione, nel 1999, mio padre la lasciò con un senso di liberazione e, ancora giovane, si diede alla libera professione. Ma non smise mai di seguirla, anche negli anni di Marchionne. Non gliel’ho mai chiesto ma non deve essere stato facile vederla trasformare in FCA, un nome che si prestava a ironie come “Da oggi si chiama FCA ma fa sempre le solite macchine del CZO”.I suoi colleghi più giovani restati in azienda lo aggiornavano: gli giravano alcune mail di Marchionne, gli raccontavano aneddoti gustosi. Quando arrivò, sconosciuto ai più, Sergio Marchionne si mise tranquillamente in fila in mensa con il suo vassoio, chiacchierando cordialmente con le persone. Robe mai viste. Tagliò gli sprechi ma investì in bagni confortevoli, asilo interno, persino un supermercato interno a Mirafiori, con prezzi calmierati per i dipendenti. Perché credeva che solo le persone che stanno bene possono essere produttive. Quando decise di dare a tutti 100 € in busta paga dovette scontrarsi con i sindacati.
Evidentemente non sapeva che un manager in Italia non può arrogarsi il diritto di far star meglio i lavoratori senza pestare i piedi ai sindacati!Nel giorno della sua morte di Marchionne è stato detto di tutto e di più. Dimentichiamo chi non ha aspettato neppure il decesso per criticarne sarcasticamente le politiche industriali e i tagli: una strumentalizzazione politica di pessimo gusto che, tra l’altro, tradisce una visione anacronistica del mondo e dell’industria. Nessuna industria può portare benessere senza essere profittevole, e per essere profittevole un’impresa deve essere efficiente, non solo un bacino occupazionale assistenzialista sostenuto con soldi pubblici. Tecnologia e globalizzazione hanno stravolto il mercato del lavoro, ma a chi avrebbe giovato il fallimento di FIAT inevitabile senza una drammatica inversione di tendenza? Onore, quindi, a chi si è preso una patata bollente immensa passando da 5 milioni di perdite al giorno a guidare una multinazionale sana e profittevole.
Delle tante cose che ho letto mi ha molto colpito una lettera di benvenuto di Sergio Marchionne a una nuova assunta.
“Cara Collega,
Esiste un mondo in cui le persone non lasciano che le cose accadano. Le fanno accadere. Non dimenticano i propri sogni nel cassetto, li tengono stretti in pugno. Si gettano nella mischia, assaporano il rischio, lasciano la propria impronta. È un mondo in cui ogni nuovo giorno e ogni nuova sfida regalano l’opportunità di creare un futuro migliore. Chi abita in quel luogo, non vive mai lo stesso giorno due volte, perché sa che è sempre possibile migliorare qualcosa.Le persone, là, sentono di appartenere a quel mondo eccezionale almeno quanto esso appartiene loro. Lo portano in vita con il loro lavoro, lo modellano con il loro talento. V’imprimono, in modo indelebile, i propri valori. Forse non sarà un mondo perfetto e di sicuro non è facile. Nessuno sta seduto in disparte e il ritmo può essere frenetico, perché questa gente è appassionata – intensamente appassionata – a quello che fa. Chi sceglie di abitare là è perché crede che assumersi delle responsabilità dia un significato più profondo al proprio lavoro e alla propria vita. Benvenuta in quel mondo, Benvenuta in Fiat Chrysler Automobiles
Sergio Marchionne, Chief Executive Officer”
Quanti titolari o manager chiamano collega il dipendente? Quanti scrivono una lettere di benvenuto? Quanti sanno parlare di sogni, valori, appartenenza, responsabilità, fatica, e passione? Sicuramente nel suo operato ci sono state luci e ombre. Ma, come scritto nella lettera, non è un mondo facile né perfetto.
Questa lettera trasmette ben più di mero “orientamento al profitto”, racconta un “purpose”, una visione. E, come scrivo nel mio libro CardioMarketing, le aziende difficilmente sopravvivono nel lungo periodo se orientate meramente al profitto e prive di un purpose, un obiettivo superiore che dia valore e soddisfazione a tutti i portatori di interesse, non solo agli investitori.
Quando muore un grande leader sarebbe bello se, invece di ergerci giudici (dal basso dei risultati certo meno eclatanti delle nostre vite), cercassimo di cogliere insegnamenti e ispirazioni che possano illuminare i nostri cammini umani e professionali, certamente non facili né perfetti.
(fonte della lettera: studiopanato)
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